SUCCEDE IN TRIBUNALE …

Scritto da Fabiola Fregola.

05 01Non possiamo negare che, anche per la nostra Professione, nonostante leggi, decreti e circolari, un peso "specifico" debba essere riconosciuto anche alla giurisprudenza.

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Con la sentenza n. 15218 del 21 luglio 2015, la Suprema Corte ha sancito la illegittimità di una sanzione disciplinare conservativa comminata ad un lavoratore senza che sia stato previamente pubblicato il codice disciplinare in un luogo accessibile a tutti i dipendenti: in particolare è stato affermato che la mancata affissione del detto regolamento sia in contrasto con quanto affermato, in primo luogo, dallo Statuto dei Lavoratori (articolo 7 della legge 300/1970) e, poi, dalla previsione del Contratto Collettivo applicato dall'azienda stessa il quale, nello specifico, prevede la massima diffusione del codice disciplinare come regola vincolante all'applicazione delle sanzioni ivi previste.
Massima pubblicità, pertanto, al regolamento disciplinare in assenza della quale anche una sanzione meramente conservativa potrebbe risultare illegittima (anche in perfetta applicazione della procedura disciplinare).

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Con la sentenza n. 13955 del 7 luglio 2015, la Corte di Cassazione ha riaffermato la legittimità del licenziamento comminato al dipendente che, durante il periodo di malattia, svolga altri lavori manuali pesanti pregiudicanti la sua guarigione.
I giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come tale condotta vìoli i principi di correttezza e buona fede che devono presiedere nell'esecuzione del contratto di lavoro. Nel caso specifico, è mancato nel rapporto di lavoro, da parte del lavoratore, una condotta tale da poter essere considerata ligia e congrua durante il periodo di malattia, e che avesse come obiettivo la guarigione e la ripresa della prestazione lavorativa.

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Merita un approfondimento a parte il contrasto creatosi nuovamente in merito alle refluenze, sul rapporto di lavoro e sul rendimento nello svolgimento della prestazione lavorativa, delle assenze causate da malattia del dipendente.
In particolare il Tribunale di Milano, con la sentenza n. 1341 del 19 gennaio 2015, riprendendo la sentenza della Corte di Cassazione n. 18678 del 2014, ha riconosciuto la legittimità del licenziamento intimato al lavoratore per scarso rendimento qualora sia provata, sulla scorta della valutazione complessiva dell'attività resa dal lavoratore stesso ed in base agli elementi dimostrati dal datore di lavoro, una evidente violazione della diligente collaborazione dovuta dal dipendente, in conseguenza dell'enorme sproporzione tra gli obiettivi fissati dai programmi di produzione per il lavoratore e quanto effettivamente realizzato nel periodo di riferimento.
Proprio la Suprema Corte, nella sentenza richiamata, aveva evidenziato come "la malattia non viene in rilievo di per sé ... ma in quanto le assenze in questione, anche se incolpevoli, davano luogo (comunque) a scarso rendimento e rendevano, di conseguenza, la prestazione non più utile per il datore di lavoro, incidendo negativamente sulla produzione aziendale".
Nel caso in oggetto il licenziamento, pertanto, non era meramente fondato sulla durata dei periodi di malattia fruiti da lavoratore ma sullo scarso rendimento della prestazione da lui resa in rapporto alla compagine organizzativa resistente.
L'assenza causata dal periodo di malattia rilevava non in sé ma, indirettamente, sul mancato raggiungimento degli obiettivi aziendali prefissati: non veniva, quindi, in rilievo il merito dell'assenza ma la conseguenza.
In altre pronunce, del resto, la c.d. eccessiva morbilità, dovuta a reiterate assenze per malattia, era stata ritenuta idonea a integrare gli estremi dello scarso rendimento quando la prestazione di lavoro non è più utile al datore di lavoro divenendo, in tal caso, il fatto del lavoratore – indipendentemente dalla sua colpevolezza – oggettivamente idoneo a provocare la risoluzione del rapporto.
Al contrario con la sentenza n. 16472 del 5 agosto 2015, la Cassazione ha affermato la illegittimità di un licenziamento comminato per "scarso rendimento" e dovuto essenzialmente all'elevato numero di assenze per malattia.
In particolare giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come lo scarso rendimento debba avere parametri scollegati dalla malattia, per la quale è possibile risolvere il rapporto di lavoro esclusivamente qualora si superi il periodo di comporto.

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Le pronunce che seguono, di cui una sola di legittimità, sono parse meritevoli di approfondimento non solo per il tenore del relativo dispositivo ma, soprattutto, per l'evidente contrasto fra gli stessi.
Iniziamo dalla prima: con sentenza n. 66 del 25 febbraio 2015, La Corte di Appello di Genova ha affermato che qualora un dipendente consigli ad un cliente di rivolgersi ad altro fornitore ricorrono gli estremi del licenziamento disciplinare atteso che, con la condotta contestata, il lavoratore ha sicuramente leso uno dei principi regolatori del rapporto di lavoro subordinato, ovvero il principio di fedeltà. I Giudici della Corte di Appello hanno, altresì, specificato che la legittimità del licenziamento sussiste anche nell'ipotesi in cui il cliente non segua il consiglio. Licenziamento legittimo, quindi, anche senza un vero e proprio danno patrimoniale o di immagine: solo il semplice "consiglio" perché, ricordiamolo, la condotta de qua lede il principio e non necessita del verificarsi di un danno.
Massima tutela quindi ai principi codicistici che regolano il rapporto di lavoro, fedeltà in primis.
Come anche nella sentenza n. 14481 del 10 luglio 2015, con la quale la Corte di Cassazione ha affermato la legittimità del licenziamento per giusta causa nell'ipotesi in cui un lavoratore non rispetti il divieto di fumare in una zona dell'azienda con alta potenzialità di rischio incendio: nel caso di specie la fondatezza e la legittimità del provvedimento non conservativo sono state avvalorate dalla volontà di punire una condotta non consona alle mansioni di caporeparto del lavoratore licenziato, il quale avrebbe dovuto essere un esempio per gli altri colleghi, soprattutto in un luogo estremamente pericoloso dell'azienda.
Massima tutela, quindi, anche in questo caso: la semplice presenza di danno "potenziale" (il lavoratore poteva provocare un incendio ma, di fatto, non l'ha provocato) legittima la punizione della condotta non all'altezza del ruolo del lavoratore.
A una settimana dalla pronuncia di cui sopra la Corte di Cassazione, con sentenza n. 15058 del 17 luglio 2015, ha affermato il principio secondo il quale il fatto materiale che ha portato alla condanna penale non comporta che il giudice del lavoro sia obbligato a legittimare i provvedimenti disciplinari sulla base delle stesse motivazioni, atteso che si tratta di illeciti e sanzioni che rispondono a finalità non sovrapponibili.
Occorre, senza dubbio, specificare quale sia il fatto materiale rilevante dal punto di vista penale: un gruppo di cinque lavoratori dipendenti di un supermercato si erano appropriati di prodotti alimentari e, a seguito di ciò, il datore di lavoro li aveva denunciati (e la causa penale era terminata con una condanna) e aveva proceduto anche al licenziamento disciplinare motivato dalla (acclarata) sottrazione di beni aziendali.
In questo caso siamo (spero) tutti d'accordo sulla sussistenza del danno.
Eppure la Suprema Corte, dopo aver ricordato che, nell'ambito del parallelismo tra i due processi (penale e civile), l'accertamento del fatto materiale è una sorta di area comune a entrambi, ha sottolineato come i due giudici siano, ognuno nel proprio processo, del tutto autonomi nell'apprezzamento della condotta contestata. Pertanto può accadere (ed in effetti è accaduto) che il provvedimento di natura privatistica (id est il licenziamento operato dal datore di lavoro) sia svincolato dalle conclusioni del giudice penale.
Di conseguenza, la Suprema Corte ha ritenuto che la valutazione emessa dai giudici di primo e secondo grado con la quale i licenziamenti erano stati ritenuti illegittimi in quanto "l'appropriazione dei generi alimentari non è necessariamente indice di volontà fraudolenta", è pienamente legittima, anche in considerazione della constatazione che la misura del recesso risulta sproporzionata rispetto al dettato contrattuale, "essendo più appropriata una sanzione di natura conservativa".
Fermi tutti: avete letto bene. Che fine ha fatto il principio di fedeltà?

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