LA PROCEDURA PREVENTIVA NEL LICENZIAMENTO INDIVIDUALE: TIPICO CASO DI ARABA FENICE?

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Premessa

Per poter affrontare le riflessioni sulle modifiche introdotte alla procedura precontenziosa disciplinata dal novellato art. 7 L. n. 604/66 mi sia consentito di ripercorrere, seppur per sommi capi, la disciplina previgente in tema di licenziamento affinchè si possa percepire la forza della modifica legislativa apportata dalla c.d. Riforma Fornero.
In ossequio alle norme del codice civile (artt. 2118 e 2119) il recesso dal rapporto di lavoro subordinato era possibile ad nutum, salvo evidentemente l'obbligo del preavviso, e non veniva richiesta alcuna preventiva procedura né, tantomeno, venivano richiesti particolari oneri formali.
Solamente il legislatore del 1966, con l'art. 2 L. n. 604/66, aveva previsto, per la prima volta nell'ordinamento italiano, un obbligo formale a carico del datore di lavoro, stabilendo che il licenziamento dovesse essere comunicato per iscritto al lavoratore. In realtà tale obbligo, sino alla L. n. 108/90 quando venne esteso a tutti, era limitato agli imprenditori che occupavano più di 35 dipendenti.
Con queste modifiche il licenziamento, pur mantenendo la caratteristica dell'unilateralità, richiedeva, per la sua piena validità, la forma scritta ad substantiam.
Un ulteriore obbligo formale veniva previsto dal secondo comma dell'art. 2 della L. n. 604/66, oggi, come si vedrà tra poco, modificato, che obbligava il datore di lavoro a comunicare per iscritto i motivi del licenziamento entro sette giorni dalla richiesta del lavoratore, che a sua volta doveva avvenire entro 15 giorni dalla comunicazione del recesso.06 01
L'obiettivo dell'introduzione degli obblighi formali e procedurali anzi descritti era quello di garantire una fondamentale funzione di tutela della dignità e della personalità del lavoratore con riguardo ad un evento ritenuto traumatico nella vita del lavoratore.
Successivamente alla cessazione del rapporto di lavoro, avvenuto per volontà del datore di lavoro, il legislatore introdusse un ulteriore passaggio procedurale, questa volta a carico di entrambe le parti, che negli intenti avrebbe dovuto limitare ed abbreviare il contenzioso giudiziario nelle cause di lavoro: il tentativo obbligatorio di conciliazione. Ma, come si ricorderà, il tentativo di conciliazione pre-giudiziale, quale "condizione di procedibilità dell'azione", per dirla con le parole del Codice di procedura, servì più spesso per dilatare i tempi della causa anziché abbreviarla. Spesso infatti le parti stesse, non avendo per nulla il c.d. animus conciliandi, attendevano il mero spirare del termine (60 giorni) per accedere poi alla fase giudiziale e, più frequentemente nelle zone metropolitane, la convoca per esperire la conciliazione giungeva quando ormai le parti avevano spostato la lite sul piano giudiziario. Per tali e altri motivi l'art. 31 della L. n. 183/2010, meglio nota come Collegato Lavoro, ha reso facoltativo il tentativo di conciliazione nelle controversie di cui all'art. 409 cpc e segg. mantenendolo però obbligatorio nei casi in cui si intendesse impugnare contratti certificati ai sensi dell'art. 80, c.4, D.Lgs. 276/2003. In sostanza quindi dalle ceneri del tentativo obbligatorio, che non aveva trovato unanime parere favorevole, rinasce, nel 2010, una procedura pre-giudiziale, pressoché invariata nel suo iter, ma rimessa esclusivamente alla volontà delle parti. Le statistiche ci portano a concludere che, salvo sparuti casi in cui l'ipotesi conciliativa si era perfezionata già in altra sede, pochi adivano al tentativo facoltativo ben preferendo accedere alla fase successiva.

L'intervento della Legge n. 92/2012

Le disposizioni introdotte dall'art. 1, cc. da 37 a 41, della L. n. 92/2012 pur essendo state poco "sotto la luce dei riflettori" nell'acceso dibattito, focalizzatosi per lo più sull'art. 18 L.n. 300/70, susseguente all'emanazione della norma, hanno profondamente inciso sia sulla sostanza che sulla procedura che il datore di lavoro deve seguire preventivamente al licenziamento.
In primis occorre evidenziare come il comma 37 abbia modificato l'art. 2 c. 2 Legge n. 604/66 introducendo, già nella comunicazione del licenziamento, l'obbligo di specificazione dei motivi determinanti il recesso. Tale modifica appare decisamente opportuna non rilevandosi alcuna necessità, quasi fosse un ossequio alla riservatezza, di attendere la richiesta del lavoratore per la comunicazione dei motivi che hanno portato al licenziamento. Tantomeno la previgente formulazione della norma pare in linea con l'intervento della Legge n. 300/70 che all'art. 7 prevede la contestazione preventiva dei fatti giustificanti l'eventuale recesso. In sostanza quindi il datore di lavoro ha l'onere di specificare, eventualmente anche per relationem, nell'atto con cui comunica il recesso al lavoratore in modo concreto le ragioni per cui si è giunti alla risoluzione del rapporto. Per completezza è utile evidenziare come il datore di lavoro non sia tenuto ad esporre in modo analitico tutti gli elementi, in fatto e diritto, posti a base del provvedimento in quanto dovrà provare il motivo addotto solo nell'ipotesi di un successivo contenzioso giudiziale promosso dal lavoratore. Per la verità non tutti i licenziamenti debbono includere, nell'atto, la motivazione essendo questo espressamente escluso nei casi di licenziamenti ad nutum (ad esempio per quello intervenuto durante il periodo di prova ) e , si ritiene, anche nel caso di recesso di personale con la qualifica dirigenziale.
Il comma 40, della citata norma del 2012, riscrive integralmente l'art. 7 L. 604/66 introducendo, in analogia con la disciplina dei licenziamenti collettivi, uno strumento conciliativo applicabile ai licenziamenti disciplinati dall'art. 18 L. n. 300/70.
E' evidente che la disposizione non può trovare applicazione nel caso di licenziamento collettivo essendo esso già ampiamente procedimentalizzato nella L. n. 223/91.
La nuova procedura obbligatoria di conciliazione, materialmente inserita nella legge del 1966, è riferita ai licenziamenti attuati per motivo oggettivo di cui all'art. 3 della medesima legge ma opera non per i licenziamenti rientranti nell'ambito di applicazione della L. n. 604 bensì per quelli disposti da datori di lavoro rientranti nell'area dell'art. 18 . Si ritiene poi ragionevole ritenere come non sia sufficiente applicare tout-court la procedura ai soggetti datoriali aventi i requisiti dimensionali disciplinati dall'art. 18 c. 8 ma sia necessario connettere la procedura con l'applicazione della tutela della reintegra, non parrebbe infatti confacente applicare il medesimo iter ai lavoratori rientranti nella tutela cosiddetta obbligatoria (es. organizzazioni di tendenza, enti senza fine di lucro...).
La procedura ha carattere preventivo, come si ricava dalla previsione dell'obbligo del datore di lavoro di comunicare alla competente Direzione territoriale e trasmettere per conoscenza al lavoratore l'intenzione di procedere al licenziamento per motivo oggettivo, con indicazione dei motivi e delle eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del lavoratore.
È previsto che, se fallisce il tentativo di conciliazione o, comunque, decorso il termine di cui al comma 3, il datore possa comunicare il licenziamento al lavoratore e che il recesso intimato all'esito della procedura conciliativa produca effetto dal giorno della comunicazione di avvio della stessa, salvo il diritto al preavviso od alla corrispondente indennità sostitutiva.
In sostanza la disposizione introdotta dall'art. 7 configura un tentativo di conciliazione che ha le seguenti caratteristiche:
   • deve essere preventivo;
   • è obbligatorio, in quanto l'omissione determinerebbe l'inefficacia dell'atto.
L'utilità del procedimento consiste, come è evidente, nel tentativo di evitare il licenziamento (si pensi infatti alle proposte alternative al recesso valutabili in sede conciliativa) ed ha una funzione di prevenzione rispetto alla controversia che potrebbe sorgere consentendo, tra l'altro, di poter escludere quanto meno che il licenziamento, visto l'intervento di un soggetto terzo (la commissione di conciliazione), possa essere ritenuto "manifestatamente insussistente".
L'ulteriore utilità del procedimento sarà, probabilmente, quella di agevolare, nei casi in cui la reintegra sembri improbabile, una soluzione conciliativa monetizzata, che appare sollecitata, da un lato, dalla rilevanza del comportamento tenuto dalle parti nella fase conciliativa ai fini della determinazione dell'indennità risarcitoria e della regolazione delle spese legali (secondo il disposto dell5art. 7, comma 8, L. 604 come modificato), dall'altro dalla possibilità per il lavoratore di fruire dell'Assicurazione Sociale per l'Impiego (ASpI) pur in difetto della involontarietà dello stato di disoccupazione.
In riferimento poi all'ambito oggettivo di applicazione, la norma fa riferimento alle ipotesi di licenziamento per giustificato motivo oggettivo. Sul punto la dottrina si è affannata per dissolvere i dubbi circa la reale volontà del legislatore, che dal tenore letterale della norma non sembra nemmeno essersi posto il dubbio, di includere tutte le ipotesi di giustificato motivo oggettivo individuate dalla giurisprudenza ancorché riferentesi al profilo del lavoratore (inidoneità fisica sopravvenuta, carcerazione preventiva, revoca del porto d'armi per la guardia giurata...) oppure se limitare l'iter procedurale ai soli licenziamenti "per motivi economici" ovvero solo a quelli relativi alle dinamiche aziendali.
Il D.L. n. 76/2013 interviene per risolvere alcuni degli aspetti critici sopra evidenziati.
In particolare viene previsto che la procedura non trovi applicazione:
- in caso di licenziamento per superamento del periodo di comporto di cui all'art. 2110 c.c., come peraltro già evidenziato dal Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali con circ. n. 3/2013;
- per i licenziamenti e le interruzioni del rapporto di lavoro a tempo indeterminato di cui all'art. 2, comma 34, della L. n. 92/2012. Trattasi delle medesime ipotesi in cui non è dovuto il c.d. contributo per "interruzione di un rapporto di lavoro a tempo indeterminato" e cioè:
a) licenziamenti effettuati in conseguenza di cambi di appalto, ai quali siano succedute assunzioni presso altri datori di lavoro, in attuazione di clausole sociali che garantiscano la continuità occupazionale prevista dai contratti collettivi nazionali di lavoro stipulati dalle organizzazioni sindacali dei lavoratori e dei datori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale;
b) interruzione di rapporto di lavoro a tempo indeterminato nel settore delle costruzioni edili per completamento delle diverse fasi lavorative e chiusura del cantiere.

Va da sé quindi che la procedura trova applicazione in tutti gli atri casi riconducibili al GMO individuati dalla giurisprudenza.

In ordine poi all'iter da seguire qualora il datore di lavoro sia intenzionato a procedere al licenziamento si può qui riepilogare:
1. comunicazione: invio alla Direzione Territoriale del Lavoro del luogo ove il lavoratore presta la sua opera e per conoscenza al lavoratore stesso all'indirizzo ultimo formalmente comunicato dallo stesso. La comunicazione, come anzidetto, deve contenere i motivi del licenziamento e le eventuali misure di assistenza alla ricollocazione del prestatore di lavoro. Particolare attenzione deve essere posta nell'indicazione dei motivi essendo essi immodificabili ed essendo gli stessi da valutare in sede conciliativa.
2. convocazione: la Direzione Territoriale nel termine perentorio di sette giorni dalla ricezione della comunicazione trasmette la convoca alle parti. In difetto del rispetto del termine la norma consente al datore di lavoro la facoltà di procedere al licenziamento, in sostanza l'eventuale inerzia del soggetto conciliatore non incide sulla possibilità di risolvere il rapporto essendo il datore onerato soltanto dell'avvio della procedura stessa.
3. incontro: le parti possono essere assistite dalle organizzazioni di rappresentanza cui sono iscritte o conferiscono mandato oppure da un componente della rappresentanza sindacale dei lavoratori ovvero da un avvocato o da un consulente del lavoro. La norma prevede che la commissione, durante l'incontro, abbia una partecipazione attiva proponendo eventuali soluzioni alternative al licenziamento ed effettuando una prima ricognizione sull'effettiva sussistenza della motivazione posta a base dell'atto di recesso anche se, di tale valutazione, il giudice potrà non tenerne conto valutando però il comportamento tenuto dalle parti, e descritto nel verbale, al fine della determinazione dell'indennità risarcitoria stabilita dall'art. 18 c.7 L. n. 300/70. La procedura deve concludersi entro venti giorni dall'invio della convocazione (in pratica dall'avvio i giorni sono 42: 7 + 20 + 15). Per la verità le parti possono decidere, congiuntamente, di proseguire la discussione anche oltre il termine sopra richiamato qualora ad esempio si voglia meglio valutare eventuali proposte. La norma poi introduce, c. 9 art.7, la possibilità per il solo lavoratore di sospendere la procedura in caso di legittimo e documentato impedimento quale ad esempio la malattia. E' però da rilevare come la norma contemperi l'esigenza del lavoratore malato di partecipare alla conciliazione e del datore di lavoro a procedere al licenziamento; infatti tale sospensione è possibile per un massimo di quindici giorni e, superato tale termine, il licenziamento potrà essere intimato. L'art. 1 c. 41 L. n. 92/2012 prevede poi che il licenziamento intimato "all'esito del procedimento di cui all'art. 7 della legge 15 luglio 1966, n. 604, come sostituito dal c. 40 del presente articolo, produce effetto dal giorno della comunicazione con cui il medesimo procedimento è stato avviato, salvo l'eventuale diritto del lavoratore al preavviso o alla relativa indennità sostitutiva; è fatto salvo, in ogni caso l'effetto sospensivo disposto dalle norme del testo unico delle disposizioni legislative in materia di tutela della maternità e della paternità, cui al D.Lgs. 26 marzo 2001, n. 151. Gli effetti rimangono altresì sospesi in caso di impedimento derivante da infortunio occorso sul lavoro. Il periodo di eventuale lavoro svolto in costanza della procedura si considera come preavviso lavorato". Viene così evidentemente a determinarsi, ma solo per le aziende che rientrano nell'ambito di applicazione dell'art. 18 L. n. 300/70, una scissione tra l'intimazione e l'effetto del recesso. Tale scissione però può creare qualche problema applicativo, ci si riferisci qui nello specifico alla gestione del preavviso. Si pensi al caso in cui il preavviso si estenda oltre la durata della procedura (nel caso sia assorbito dall'arco temporale in cui si esaurisce la procedura la risoluzione avverrà alla conclusione del preavviso stesso, per cui non si rileva alcun problema in tal caso) poiché, come è stato fatto notare, si avrebbe una paradossale situazione in cui il lavoratore continua a prestare la propria opera pur nelle ipotesi in cui gli effetti del licenziamento retroagiscono alla data della comunicazione. In merito poi all'omissione del legislatore rispetto alla sospensione in caso di malattia professionale occorre sottolineare come la stessa non possa che essere voluta, pertanto è ragionevole ritenere che l'effetto sospensivo si abbia esclusivamente in caso di infortunio e non in caso di malattia professionale ancorché la stessa sia imputabile al datore di lavoro.
4. cessazione del rapporto: la procedura potrà concludersi con la risoluzione consensuale la quale, per espressa previsione normativa, consentirà, in deroga al principio che lo stato di disoccupazione deve essere involontario, di ottenere il trattamento di ASpI, con una misura alternativa al licenziamento oppure con il formale atto di recesso.

Conclusioni


La riforma del 2012, sebbene abbia lasciato inalterata la disciplina sostanziale in tema di licenziamento individuale dettata dalla L. n. 604/1966, ha tuttavia inciso profondamente, come abbiamo visto, sulla procedimentalizzazione del licenziamento intimato ai lavoratori rientranti nell'area della tutela reale facendo risorgere dalle ceneri il tentativo obbligatorio di conciliazione e creando però una evidente disparità con i lavoratori dipendenti di aziende di dimensione inferiori a 15 unità i quali non solo non sono obbligati ad accedere alla commissione di conciliazione ma anche non possono essere beneficiari dell'ASpI in caso di risoluzione consensuale nonostante si sia valutata, congiuntamente, l'impossibilità della prosecuzione dell'attività lavorativa.

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