CEDU, SENTENZA N. 552/2010 - LICENZIAMENTO LAVORATORE AFFETTO DA HIV

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09 01I fatti di causa si sono svolti in Grecia, ed interessano il rapporto di lavoro intercorso tra un lavoratore (diventato sieropositivo) e il proprio datore di lavoro, dall'anno di assunzione (2001), al licenziamento, intervenuto in data 23 febbraio 2005; la vicenda giudiziaria verte sulla genuinità dei motivi del licenziamento e sulla sua legittimità. Il dipendente ha fatto valere i propri diritti in tutti i gradi di giudizio previsti dall'ordinamento greco, fino alla richiesta di tutela presentata in CEDU, che ha emesso la propria decisione lo scorso 3 ottobre 2013.

Il caso
Il datore di lavoro, una grossa azienda di gioielli, impiegava, all'epoca del licenziamento, circa 70 dipendenti, tra cui il ricorrente, dall'anno 2001; il rapporto si interrompe per consentire al ricorrente l'adempimento dell'obbligo del servizio militare, ma in data 1° luglio 2004 il datore di lavoro lo riassume.
Nel mese di gennaio 2005, il ricorrente confida a tre colleghi il timore di aver contratto il virus dell'HIV, timore rivelatosi fondato all'esito degli esami diagnostici, effettuati durante il periodo di congedo feriale; in data 15 febbraio 2005, gli stessi tre colleghi inviano al datore di lavoro una lettera, con cui lo avvisano che il ricorrente "ha l'AIDS", e chiedono di prorogare il suo periodo di ferie, al fine di non farlo rientrare al lavoro.
Nel frattempo, la notizia circa lo status di salute del ricorrente è stata resa nota in azienda, e tutto il personale impiegato, lamentandosi con il datore di lavoro per il fatto di dover lavorare con il collega sieropositivo, ne domanda l'allontanamento dal luogo di lavoro; il datore di lavoro, al fine di tutelare la salute in azienda, unitamente alla volontà di rassicurare i dipendenti, invita il medico del lavoro a tenere una riunione con tutto il personale, allo scopo di spiegare le modalità di trasmissione del virus e le precauzioni da adottare. Nonostante le rassicurazioni ricevute dal medico, gli altri dipendenti insistono affinché il datore di lavoro licenzi il ricorrente; per trovare una soluzione percorribile e bilanciare gli interessi in gioco, il datore di lavoro propone il trasferimento del ricorrente in altro dipartimento; per tutta risposta, il responsabile di tale sezione minaccia di dimettersi.
Il datore di lavoro, a questo punto, propone al ricorrente di lasciare l'azienda, promettendogli in cambio un incentivo all'esodo e un aiuto economico per avviare una attività in proprio, nonché la possibilità di frequentare un corso di formazione.
In data 21 febbraio 2005, 33 dipendenti dell'azienda (quasi la metà del personale impiegato) inviano al datore di lavoro una lettera con cui ribadiscono la necessità del licenziamento del ricorrente, al fine di "salvaguardare la loro salute e il loro diritto al lavoro", sottolineando che il clima armonioso che regnava in azienda stava venendo meno, soltanto a causa del collega malato.
Il 23 febbraio 2005, il datore di lavoro intima il licenziamento al ricorrente, ancora in ferie, versandogli contestualmente l'indennità prevista dal diritto greco.
Il 13 maggio 2005 il lavoratore propone azione legale contro il datore di lavoro, e nel frattempo trova una nuova occupazione.

Le decisioni prese nei tre gradi di giudizio in Grecia
Ad avviso di chi scrive, per meglio comprendere le sfumature delle decisioni rese nei tre gradi di giudizio, è importante sottolineare le richieste del ricorrente e i punti di difesa del datore di lavoro.
Pertanto, il ricorrente sottolinea:
1) il pregiudizio sociale inammissibile e le considerazioni discriminatorie poste alla base del suo licenziamento;
2) l'illegittimità del licenziamento e la sua nullità, dovuta al versamento di una indennità inferiore al previsto;
3) le ragioni spregevoli, che non hanno tenuto conto del fattore umano e della lesione alla sua personalità, nonché la pretestuosità dei motivi del licenziamento;
4) il trattamento avverso, ingiustificato ed inumano, subìto sul luogo di lavoro a causa del suo serio problema di salute;
e chiede al tribunale (nonché alla corte di appello, alla corte di cassazione ed, in ultima istanza, alla CEDU): a) di dichiarare nullo il licenziamento per abuso di diritto; b) di ordinare al datore di lavoro la reintegra in azienda; c) di condannare il datore di lavoro al:
- pagamento della mancata retribuzione dal momento del licenziamento a quello della reintegra;
- versamento della maggior somma dovuta a titolo di indennità di licenziamento;
- versamento della somma di Euro 200 mila a titolo di risarcimento del danno morale.
Il datore di lavoro si difende in giudizio, sostanzialmente sostenendo l'inevitabilità del licenziamento (e la sua legittimità), al fine di tutelare ed assicurare il buon funzionamento ed il buon andamento della propria azienda, evitando così lamentele e malumori tra i dipendenti.
In primo grado, il 13 giugno 2006, il tribunale, ai sensi dell'art. 281 Codice Civile Greco (che proibisce l'esercizio di un diritto se questo supera manifestamente i limiti imposti dalla buona fede o dalla morale), accerta che il licenziamento è stato intimato unicamente a causa della malattia del ricorrente; ritenendo, quindi, che il comportamento tenuto dal datore di lavoro configura una ipotesi di abuso di diritto, lo condanna al pagamento della somma corrispondente alle retribuzioni maturate e non pagate dal momento del licenziamento.
Il tribunale non riconosce però al ricorrente il danno morale (in quanto non ritiene sussistente una lesione alla persona del lavoratore, poiché il ricorrente non ha provato che il licenziamento è scaturito dalla volontà delittuosa del datore di diffamare il dipendente), né ordina al datore di lavoro la reintegra del dipendente in azienda (dal momento che il ricorrente aveva già trovato un nuovo impiego).
Tra febbraio e marzo 2007, entrambe le parti in causa appellano la decisione di primo grado.
In secondo grado, con decisione del 29 gennaio 2008, la Corte di Appello di Atene rigetta il ricorso presentato dal datore di lavoro, ammettendo solo i motivi di doglianza del ricorrente.
In particolare, l'organo giudicante segue la linea tracciata dal tribunale, sostenendo che le lamentele sollevate dai colleghi del ricorrente sono state fondate su pregiudizi e scientificamente ingiustificate, come tra l'altro spiegato dal medico del lavoro.
Continua la Corte ribadendo che "in effetti, dato il modo di trasmissione del virus, non esisteva alcun pericolo per la loro salute", e che "conseguentemente, la malattia del ricorrente non poteva incidere negativamente sul buon funzionamento dell'azienda".
In ultimo, la Corte rileva altri tre dati fondamentali per la decisione:
1) il ricorrente non si è mai assentato dal lavoro per malattia (HIV), né alcuna assenza per malattia poteva essere prevedibile nel futuro;
2) dato che il lavoro affidato al ricorrente non era particolarmente faticoso a livello fisico, non c'era il rischio che egli subisse una riduzione della propria capacità lavorativa, tant'è che, a parere della Corte, "nei numerosi anni in cui un malato resta semplicemente portatore di HIV, le sue capacità non subiscono sostanziali riduzioni";
3) non è possibile credere alla buona fede o all'interesse del datore di lavoro al buon funzionamento dell'azienda, dato che nessun collega si è dimesso nel periodo intercorrente tra il momento in cui la notizia della malattia del ricorrente è stata diffusa in azienda e quello del licenziamento.
Pertanto, in sede di appello, il giudice accerta che il ricorrente ha subìto un danno morale alla persona, poiché il licenziamento illegittimo ha danneggiato il suo status professionale e sociale, che costituiscono i due aspetti salienti della personalità; condanna pertanto il datore di lavoro al versamento di Euro 1.200,00 a titolo di risarcimento del danno morale (oltre a ribadire la condanna al pagamento della somma corrispondente alle retribuzioni maturate dal momento del licenziamento, nella misura già indicata dal tribunale).
Entrambe le parti adiscono la Cassazione greca, che, il 17 marzo 2009, cassa la sentenza di Corte d'Appello, sostenendo l'erronea applicazione dell'art. 281 Codice Civile Greco; in particolare, la Corte Suprema, motivando la legittimità del provvedimento espulsivo (ritenuto "pienamente giustificato dall'interesse del datore di lavoro che ha deciso di riportare la calma nell'azienda"), incorre nello stesso grossolano errore commesso dai colleghi del ricorrente, nella parte in cui conferma che "in effetti, i dipendenti erano seriamente preoccupati a causa della malattia estremamente seria e contagiosa del ricorrente, fonte per loro di insicurezza e timore per la propria salute; tale motivo li ha indotti a sollecitare collettivamente e per iscritto il licenziamento, sottolineando che, in caso contrario, si sarebbe presentato un problema importante per il buon funzionamento dell'impresa".
La Suprema Corte dunque cassa con rinvio, rigettando in toto il ricorso del lavoratore; non si ha alcuna nuova pronuncia in sede di appello, dato che l'iniziativa di procedere nuovamente in secondo grado appartiene alle parti e nessuna delle due ha mostrato di avervi interesse.
Il lavoratore propone ricorso alla CEDU, che si è definitivamente pronunciata lo scorso 3 ottobre.

La decisione della CEDU
Il ricorrente chiede alla Corte Europea di accertare la violazione del suo diritto alla vita privata, sostenendo altresì l'illegittimità del licenziamento ed il suo carattere discriminatorio, invocando l'applicazione del combinato disposto degli artt. 8 e 14, e dell'art. 41 della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali (firmata a Roma il 4 novembre 1950) .
Il lavoratore ritiene di essere stato vittima di una "discriminazione immediata, diretta ed effettiva", dimostrata dal fatto che, se non fosse stato portatore del virus, i suoi colleghi non si sarebbero rifiutati di lavorare con lui, né gli sarebbe stato negato il diritto di lavorare; sostiene, inoltre, che i portatori di HIV facciano parte di un gruppo vulnerabile, siano sistematicamente vittime di trattamenti discriminatori e siano esclusi ed emarginati dalla società e che, se l'ordinamento greco avesse previsto esplicitamente il divieto di licenziamento a causa dell'HIV, i colleghi non avrebbero nutrito pregiudizi e non si sarebbero intromessi nella sua vita privata, né avrebbero creato malumori in azienda, minandone il buon andamento.
La Grecia, pur ammettendo che qualsiasi licenziamento ha ripercussioni sulla vita privata del lavoratore, sostiene che l'art. 8 non si applichi nel caso di specie, in quanto il licenziamento deve implicare problematiche gravi che non siano soltanto la perdita dell'occupazione, ma, ad esempio, l'impossibilità di reperirne un'altra, con conseguente esclusione totale dal mercato del lavoro (nel caso in analisi, dopo poco tempo dal licenziamento, il ricorrente si è reimpiegato).
Il Governo greco ribadisce altresì la legittimità del licenziamento, dettata solo dalla necessità di preservare il buon funzionamento dell'azienda e non dalla volontà di discriminazione del portatore del virus HIV; a sostegno della propria tesi ricorda che, prima di irrogare il provvedimento espulsivo, il datore di lavoro ha cercato delle differenti soluzioni, interpellando anche il medico del lavoro.
In ultimo, la difesa greca conclude sottolineando che il lavoratore non è stato vittima di discriminazione, che non è stato trattato in maniera differente dagli altri lavoratori a causa della sua malattia, e che il suo stato di salute non è stato paragonato a quello degli altri dipendenti; il datore di lavoro ha preso la decisione del licenziamento solo per ristabilire la pace all'interno dell'azienda.
A livello giuridico, la Grecia ritiene che né l'art. 8, né l'art. 14, né il protocollo 12 impongano agli Stati di legiferare a protezione dei portatori di HIV, e ribadisce che lo Stato Ellenico ha dato attuazione alle azioni positive all'interno dell'ordinamento del lavoro, del diritto civile o in disposizioni speciali per specifiche categorie di lavoratori (es., portatori di handicap).
In ultimo, la difesa sottolinea che se il ricorrente ha potuto adire i tribunali greci in ogni grado di giudizio, ciò significa che le disposizioni di diritto civile e di diritto del lavoro interne offrono una tutela sufficiente anche ai lavoratori affetti da HIV.
La Corte Europea, in primo luogo, analizza tutte le fonti legislative nazionali applicabili, in particolare la costituzione greca, la legge sui licenziamenti e quella sull'uguaglianza di trattamento; si sofferma altresì sull'analisi del rapporto della Commissione nazionale per i diritti dell'uomo del 27 gennaio 2011, relativo alla "protezione dei diritti dei portatori di HIV".
Procede alla ricostruzione di diritto con l'esame dei testi europei ed internazionali, quali la raccomandazione n. 200 dell'OIL del 2010, la raccomandazione n. 1116 del 1989 dell'Assemblea parlamentare del Consiglio d'Europa e il Patto Internazionale sui diritti economici, sociali e culturali (art. 2§2).
Alla luce anche di precedenti giuridici similari (di cui si dirà) e dello studio comparato dei diritti europei, la Corte ritiene applicabili gli artt. 8 e 14, in quanto:
1) la definizione di "vita privata" è da interpretarsi in maniera estensiva, ricomprendendo anche l'integrità fisica e morale della persona e l'identità fisica e sociale dell'individuo; pertanto, le questioni relative all'impiego, specie se riferibili a persone affette da HIV, rientrano nella "vita privata" (§70 della sentenza: "e non potrebbe essere altrimenti, dato che l'epidemia di HIV non può essere considerata solo come un problema medico, poiché i suoi effetti si fanno sentire in tutte le sfere della vita privata");
2) nei fatti di causa, vi è una particolarità rispetto ai precedenti giurisprudenziali, in quanto il fatto cardine, il punto di inizio della vicenda è da individuarsi nella comunicazione del dipendente del proprio stato di sieropositività (nonostante le rassicurazioni del medico, vi è un climax nel comportamento dei colleghi, teso ad ottenere il licenziamento del ricorrente, -dal rifiuto di lavorare, alla richiesta di licenziamento, alla aperta minaccia di minare il buon funzionamento aziendale); la CEDU giudica il licenziamento come discriminatorio , in quanto nulla sarebbe successo se il ricorrente non avesse comunicato nulla circa il suo stato di salute;
3) il fatto che il ricorrente abbia trovato un impiego nuovo in breve tempo, è considerato irrilevante e non sufficiente ad annullare l'effetto negativo procurato sulla sua vita privata dalle vicissitudini processuali;
4) un problema di salute quale quello della sieropositività deve essere considerato un motivo di discriminazione rientrante nell'espressione "tutte le altre situazioni", di cui all'art. 14;
5) anche l'ONU ha riconosciuto la status di sieropositività come uno dei motivi di discriminazione vietati.
Per quanto concerne il riconoscimento del danno morale, a fronte della richiesta del ricorrente di Euro 20 mila, la Corte accorda la somma di Euro 8 mila, non ritenendo sufficienti i giustificativi necessari circa le spese sostenute (comprese quelle processuali).
Resta confermata la condanna del datore di lavoro al pagamento della somma corrispondente alle retribuzioni maturate dal momento del licenziamento, nella misura già indicata inizialmente dal tribunale.

I precedenti
La sentenza assume una particolare importanza in quanto è il primo caso in cui la Corte affronta il tema della tutela del diritto alla salute, in una fattispecie di licenziamento di un lavoratore affetto da una patologia.
Ai fini della decisione, la Corte ha valutato la situazione giuridica nell'Unione Europea, rilevando che, per quanto concerne la protezione contro la discriminazione sul luogo di lavoro accordata ai lavoratori affetti da HIV, 7 Stati (tra cui l'Italia) hanno adottato delle disposizioni legislative ad hoc, mentre negli altri Stati tale disciplina risulta assorbita in altri testi legislativi.
Nella sentenza si ricordano anche casi analoghi, risolti dai diritti interni; ad esempio, in Francia, nell'anno 2012, è stato stabilito che un lavoratore affetto da HIV non è obbligato a comunicare il suo stato di salute, a meno che questo non sia strettamente necessario per l'esecuzione del proprio lavoro (nel caso di specie, per l'addetto al bancone della caffetteria si è ritenuto che il pregiudizio ingenerato nella clientela non poteva giustificare la cessazione del contratto di lavoro); precedentemente, anche in Belgio, nel 1998, un datore di lavoro era stato condannato per aver abusato del suo diritto di licenziamento, licenziando un dipendente esclusivamente in ragione della sua sieropositività (casi analoghi, negli anni 2004-2011, si sono verificati in territorio elvetico, in Ucraina, in Croazia, in Polonia e in Russia).
Nel rendere le proprie difese, la Grecia si rifà al caso KIYUTIN contro RUSSIA, sostenendo che la condanna inflitta dalla Corte alla Russia fosse da basata esclusivamente sull'atto illegittimo dello Stato, che poneva delle restrizioni ai diritti di soggiorno nel territorio dell'Unione Europea ai portatori di HIV; la Corte aveva ritenuto che il trattamento riservato agli stranieri sieropositivi fosse discriminatorio, in base al combinato disposto degli artt. 8 e 14 della Convenzione.
La Grecia ha sostenuto che non fosse applicabile la stessa decisione, in quanto nel caso in analisi la responsabilità della eventuale discriminazione è di un datore di lavoro privato e non dello Stato, e che non sia possibile assimilare la responsabilità di un privato a quella dello Stato di appartenenza (caso n. 2700/10, deciso dalla Corte nell'anno 2011).
La Corte era stata adita in precedenza per casi di limitazioni alla libertà personale (come nel caso SIDABRAS e DZIAUTAS contro LITUANIA, nn. 55480/00 e 59330/00, ricorsi riuniti e decisi dalla CEDU nell'anno 2004) o alla libertà di espressione (come nel caso PALOMO SANCHEZ e ALTRI contro SPAGNA, deciso anch'esso nell'anno 2011), ma mai per questioni di licenziamenti illegittimi dettati dalla condizione della sieropositività.

Il futuro
Proprio perché la vicenda in commento rappresenta il primo e finora unico caso sottoposto all'attenzione della Corte di Strasburgo in materia, quella resa dalla CEDU è una decisione certamente importante, destinata a creare un precedente storico; prima di poterlo considerare definitivo, è necessario però attendere almeno tre mesi, ossia il periodo che lo Stato greco ha a disposizione per potersi rivolgere alla Grande Chambre, depositando ricorso per la riforma della decisione.

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