ASPI E LICENZIAMENTO DISCIPLINARE – INTERPELLO N. 29/2013

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Il licenziamento disciplinare non può qualificarsi quale motivo di disoccupazione "volontaria" poiché tale provvedimento non è automatico ma rimesso "alla libera determinazione e valutazione del datore di lavoro e costituisce esercizio di potere discrezionale" (Cassazione n. 4382 del 25.07.1984), pertanto, in caso di licenziamento disciplinare, sussiste sia il diritto alla percezione dell'ASpI da parte del lavoratore sia l'obbligo del relativo versamento contributivo a carico del datore di lavoro.
E' questo l'ulteriore chiarimento in merito all'obbligatorietà del versamento del contributo di finanziamento ASpI da parte delle aziende e contenuto nell'interpello n.29 del 23 ottobre 2013, a seguito di apposita istanza avanzata dal Consiglio Nazionale dei Consulenti del Lavoro.05 01
Il nodo gordiano portato all'attenzione del Ministero del Lavoro si fonda sulla doverosità o meno del pagamento del contributo ASpI nei casi di licenziamento disciplinare per giusta causa o per giustificato motivo soggettivo.
Volendo solo qui brevemente ricordare come la differenza tra i due sia imputabile alla gravità di una violazione o di un comportamento inadempiente del prestatore di lavoro e degli effetti che ne possano derivare, si è voluto far chiarezza su una ipotesi di disoccupazione dove la dicitura "involontaria" tende a collidere con l'effettività dei comportamenti tenuti.
Ma quali sono i casi di effettiva debenza del contributo a carico del datore di lavoro? È proprio l'art 2 della L. 92/2012 quale testo istitutivo dell'Assicurazione sociale per l'Impiego, secondo il Ministero del Lavoro, a dettare le cause di esclusione dell'Aspi e del contributo a carico del datore di lavoro, ed è questo il punto di partenza per decidere se il datore di lavoro sia tenuto o meno a versare il medesimo.
Scorrendo il testo di legge possiamo rilevare come il comma 4 preveda che tale indennità di sostegno venga erogata "ai lavoratori che abbiano perduto involontariamente la propria occupazione", mentre il comma 5 statuisce l'esclusione per tutti quei lavoratori i cui rapporti siano cessati per dimissioni o per risoluzione consensuale "fatti salvi i casi in cui quest'ultima sia intervenuta nell'ambito della procedura di cui all'art.7 della legge 15 luglio 1966 n° 604".
Orbene, tale elencazione viene ritenuta tassativa da parte del Ministero, il quale non solo delinea nel citato comma 5 gli unici casi di esonero dal versamento contributivo, ma cerca una ulteriore base a sostegno della tesi in diverse circolari Inps, inerenti un eventuale pagamento di ammortizzatori sociali da parte dell'Ente previdenziale in caso di licenziamento disciplinare.
E continua a produrre ulteriori circolari chiarendo perfettamente ai lettori il punto di vista dell'Istituto, specificando che lo stesso non ha mai trattato in modo differente l'ipotesi del licenziamento disciplinare dalle altre forme di licenziamento.
Va da sé, come pensiero della scrivente, che altro non potrebbe essere detto da un ente previdenziale che in questo modo rischia di veder ridotto il gettito delle proprie entrate, anche se solo per somme di poco conto, ma sempre utili per gli esborsi che si trova a dover sostenere.
Ma torniamo a noi. Il tutto ci serve a chiarire come "il licenziamento disciplinare può essere considerato un'adeguata risposta dell'ordinamento al comportamento del lavoratore e pertanto negare la corresponsione dell'Aspi costituirebbe, un'ulteriore reazione sanzionatoria."
Come dargli torto, il ragionamento è corretto e noi lo accettiamo pensando alle famiglie che rimarrebbero prive di sostentamento.
Ma continuiamo ancora un po' nella lettura dell'interpello e arriviamo alla parte in cui "potrebbe risultare iniquo negare la protezione assicurata dall'AspI nell'ipotesi in cui il giudice ordinario dovesse successivamente ritenere illegittimo il licenziamento impugnato".
Illegittimo: nullo, annullabile, discriminatorio .... E quindi, che fare in caso di sentenza? Il legislatore è stato molto chiaro nell'elencare le sanzioni pecuniarie cui andrebbe incontro il datore di lavoro in questi casi, tanto per citare l'art.18 Statuto dei Lavoratori.
Così come altrettanto chiara è la magistratura che sta aderendo all'orientamento del non considerare nell'aliunde perceptum le indennità di disoccupazione percepite, vedasi ad esempio le sentenze della Cassazione civile, 4 marzo 2010, n.5217 per quanto attiene all'indennità di disoccupazione e la sentenza 14 febbraio 2011, n. 3597 per l'indennità di mobilità. Tali pronunce stabiliscono in modo deciso che, in merito al risarcimento del danno a favore del lavoratore illegittimamente licenziato, il datore di lavoro non può detrarre quanto percepito dal lavoratore a titolo di indennità di mobilità e/o di indennità di disoccupazione, dato che queste ultime devono intendersi come non acquisite, essendo ripetibili dagli Istituti previdenziali. Pertanto il giudice non potrà decurtare il valore dell'indennità di mobilità o dell'indennità di disoccupazione dal risarcimento del danno dovuto al lavoratore per licenziamento illegittimo; saranno eventualmente gli istituti previdenziali ad operare la ripetizione di tali somme, se indebitamente percepite dal lavoratore.
E quindi in un caso in cui il dipendente venga reintegrato o riassunto in seguito a sentenza, cosa ne rimane dell'obbligatorietà del versamento del contributo da parte del datore di lavoro? Possiamo sperare a che l'Ente previdenziale restituisca la somma, dato il venir meno dell'obbligo di legge? Saranno crediti compensabili in F24? O rimarranno come somme in giacenza per ulteriori licenziamenti se mai il datore di lavoro decidesse di ritentare la sorte con un altro licenziamento?
Non ci resta che attendere sentenze di illegittimità e nuove circolari Inps, sperando in altri momenti di chiarezza per gli operatori del settore.

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