SUCCEDE IN TRIBUNALE …

Scritto da Fabiola Fregola.

02 01Non possiamo negare che, anche per la nostra Professione, nonostante leggi, decreti e circolari, un peso "specifico" debba essere riconosciuto anche alla giurisprudenza.

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Sempre presente sul tema della sicurezza nei luoghi di lavoro la Corte di Cassazione con la sentenza n. 6631/2015, ha affermato che ove il datore di lavoro dovesse violare il rispetto degli obblighi in materia di sicurezza sul lavoro non assicurando condizioni di lavoro idonee ai lavoratori, questi ultimi sarebbero legittimati a non eseguire la prestazione lavorativa, eccependo l'inadempimento datoriale.
A sostegno della superiore statuizione viene posto l'art. 2087 c.c. il quale stabilisce che "l'imprenditore è tenuto ad adottare nell'esercizio dell'impresa le misure che, secondo la particolarità del lavoro, l'esperienza e la tecnica, sono necessarie a tutelare l'integrità fisica e la personalità morale dei prestatori di lavoro".
Sembra, quindi, che la sicurezza nei luoghi di lavoro o, comunque, la diligenza del datore di lavoro nel porre in essere tutte le misure volte a cautelare i lavoratori nei luoghi di svolgimento delle proprie prestazioni costituisca elemento stesso del sinallagma contrattuale con il lavoratore il quale, in assenza di idonee misure per la propria integrità fisica, possa, in extrema ratio, anche rifiutarsi (attenzione legittimamente) di svolgere la propria prestazione lavorativa.

A sostegno di quanto sopra si aggiunge la sentenza n. 14012/2015, con la quale la Corte di Cassazione, ha ribadito, in caso di infortunio, la responsabilità penale del datore di lavoro per lesioni colpose gravi occorse al lavoratore presente in un cantiere, indipendentemente dal fatto che quest'ultimo stesse lavorando o stazionasse nel cantiere in un momento di pausa e ciò in quanto "la violazione delle prescrizioni a tutela della sicurezza degli ambienti lavorativi, per il solo fatto che l'infortunio si sia realizzato all'interno del cantiere, resta attiva a prescindere dal fatto che il lavoratore stesse prestando attività lavorativa o fosse rimasto lì durante un periodo di riposo o pausa dal lavoro".

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Interessante la sentenza n. 6944/2015, con la quale la Corte di Cassazione, evidenzia gli elementi per la corretta individuazione del distacco genuino all'uopo sottolineandone le caratteristiche peculiari ai sensi dell'art. 29 del D.L.vo n. 276/2003 ovvero:
  - la temporaneità;
  - l'interesse del distaccante;
  - la conservazione del potere direttivo in capo al distaccante.
Atteso che il distacco rientra nel potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro (soggetto distaccante), il quale, per esigenze produttive può porre temporaneamente uno o più lavoratori (distaccati) a disposizione di un altro soggetto (soggetto fruitore o distaccatario) per l'esecuzione di una determinata attività lavorativa in assenza di uno o più degli elementi sopra indicati non potrà parlarsi di vero e proprio distacco.
La Corte di cassazione ha avuto anche modo di ribadire la legittimità del distacco ove lo stesso sia posto in essere all'interno dei gruppi di impresa.
Vengono, altresì, confermati gli unici limiti del distacco ovvero il necessario il consenso del lavoratore nel caso in cui debba svolgere mansioni diverse, sebbene equivalenti, rispetto a quelle per cui è stato assunto e nel caso in cui lo svolgimento della prestazione lavorativa debba svolgersi presso una unità lavorativa che dista oltre 50 km da quella originaria. In tale ultimo caso il distacco dovrà essere giustificato da comprovate ragioni tecniche, produttive, organizzative o sostitutive.

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Con sentenza n. 8286/2015, la Corte di Cassazione si è pronunciata sull'indennità prevista in caso di conversione del contratto da tempo determinato (illegittimo) a tempo indeterminato affermando che la stessa spetta anche ai lavoratori in somministrazione. I giudici della Suprema Corte hanno evidenziato come tale forma di risarcimento (ammontante in un range da 2,5 a 12 mensilità) debba trovare applicazione in tutte le ipotesi di illegittima apposizione del termine.

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Provoca quasi un sorriso la sentenza della Corte di cassazione n. 8784/2015 la quale ha stabilito che costituisce giusta causa di licenziamento la condotta del lavoratore il quale, durante la fruizione di un permesso retribuito, richiesto al datore di lavoro per assistere la madre affetta da grave disabilità, aveva partecipato, in realtà, ad una serata danzante. La Corte precisa che la richiesta del lavoratore di usufruire di un giorno di permesso retribuito in forza della Legge 104/1992 allo scopo di poter assistere il familiare portatore di handicap - a fronte dell'effettivo utilizzo del giorno di permesso per dedicarsi ad un'attività ludica del tutto estranea alla finalità assistenziale propria dell'istituto utilizzato - costituisce condotta quanto meno odiosa dal punto di vista sociale e della collettività (che, peraltro, partecipa alla corresponsione del permesso).
A sua difesa il lavoratore aveva specificato di avere accudito la madre invalida tutto il giorno per poi dedicarsi, solo di sera, all'attività ludica ma la Cassazione, ferma nella sua statuizione, non ha preso in considerazione le motivazioni addotte stabilendo che la condotta costituisce in re ipsa violazione dei doveri di fedeltà, correttezza e buona fede posti in capo al lavoratore.

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In ambito tributario occorre segnalare una recente sentenza della Corte di Cassazione con la quale viene dichiarato nullo l'avviso di accertamento per omessa sottoscrizione del capo dell'ufficio competente.
Piccola dimenticanza del fisco che "salva" il contribuente; per i giudici tributari, difatti, unica sanzione possibile da sancire non può che essere l'annullamento dell'avviso per mancanza della necessaria sottoscrizione del 'capo' dell'ufficio. Non proprio d'accordissimo l'Agenzia delle Entrate ma per i giudici della Cassazione non ci sono dubbi poiché la sottoscrizione è un "dato fondamentale".
Diverso, aggiungono i giudici, "sarebbe stato il caso" laddove "l'atto avesse recato almeno la sottoscrizione di altro responsabile dell'Ufficio, seppur non caratterizzato dalla qualità di 'capo' di esso, ovvero di suo delegato". Almeno in questo caso la "paternità" dell'atto impositivo sarebbe stata almeno indicata.

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Attenzione anche ai diritti camerali maturandi anche in caso di attività imprenditoriale cessata ma solo "di fatto".
Sempre con una recente sentenza la Cassazione è intervenuta sull'obbligatorietà o meno del pagamento del diritto camerale successivamente al deposito ed all'approvazione del bilancio finale di liquidazione.
Il responso della Suprema Corte è stato il seguente: "il pagamento del tributo camerale trova la propria disciplina dal 2001 nella legge n. 488, e il suo presupposto è correlato all'iscrizione nel registro delle imprese, e che, in virtù della normativa regolamentare, ciò che assume rilievo sono la sussistenza dei presupposti ivi previsti (bilancio finale di liquidazione e domanda di cancellazione) senza che a nulla rilevi l'eventuale cessazione "di fatto" dell'attività societaria."
Quindi, la cessazione dal pagamento del diritto annuale opera a partire dall'anno solare successivo a quello in cui è stato approvato il bilancio finale di liquidazione a condizione che la relativa domanda di cancellazione al registro delle imprese sia presentata entro il 30 gennaio successivo all'approvazione del bilancio finale.

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