VIDEOSORVEGLIANZA SUL POSTO DI LAVORO? SI GRAZIE

Scritto da Alfio Zarbano.

02 01Finalmente è arrivato il cosi tanto atteso decreto che rivoluziona, come annunciato, la normativa sulla videosorveglianza sul posto di lavoro. Infatti nella G.U. n. 221 del 23-09-2015 Suppl. Ordinario n. 53, troviamo la pubblicazione del decreto legislativo n. 151 del 14 settembre del 2015 che all'art. 23 riforma tale normativa.
Premettiamo che la sorveglianza della proprietà e dei propri beni e del proprio patrimonio rientra in un diritto costituzionalmente garantito, sancito dall'art. 42 della Costituzione, che così recita:" La proprietà è pubblica o privata. I beni economici appartengono allo Stato, ad enti o a privati.
La proprietà privata è riconosciuta e garantita dalla legge, che ne determina i modi di acquisto, di godimento e i limiti allo scopo di assicurarne la funzione sociale e di renderla accessibile a tutti".
Tale tutela nel tempo si è andata a scontrare con la normativa sulla privacy e le diverse sentenze della Corte di Cassazione che hanno limitato le azioni in merito alla videosorveglianza privata.
Anche nel mondo del lavoro la Sorveglianza è stata disciplinata dallo Statuto dei Lavoratori, precisamente all'art. 4 della Legge 300/700. Tale disciplina, dopo tanti anni, è stata finalmente rivisitata dal governo attuale e con uno dei decreti attuativi del Job Act ne viene modificata ed ampliata la portata.
Infatti, nella precedente formulazione, l'art. 4 vietava l'installazione di impianti audiovisivi e di qualsiasi altro apparecchio finalizzato al controllo dell'attività lavorativa del personale dipendente. Tra l'altro sono ricomprese in tale divieto anche le apparecchiature di controllo richiesta da esigenze organizzative, come palmari, tablet in dotazione etc..., cosi come previsto dalla nota del Ministero del Lavoro del 2006 n. 6585.
Naturalmente il divieto può venire meno in presenza di impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro.
Per poter installare l'impianto di videosorveglianza secondo l'accezione prevista, necessita la presenza di un accordo tra il datore di lavoro e le RSA o, in mancanza di essa, da Commissione interna.
In assenza di accordo, il datore di lavoro deve interpellare la Direzione Territoriale del Lavoro al fine di ottenere un provvedimento autorizzativo utile per poter installare gli impianti di video sorveglianza. La DTL al fine di rilasciare l'autorizzazione chiederà la produzione della documentazione tecnica dell'impianto con l'indicazione anche della localizzazione e raggio di visione delle telecamere stesse, al fine di verificare se esistono, le condizioni per concedere l'autorizzazione e nel caso dettare le modalità d'uso dell'impianto, oltre alla produzione di dichiarazione di assenso dei lavoratori per l'installazione delle telecamere, al fine della normativa sulla privacy.
In caso di violazione del dettato normativo è prevista un'ammenda che andava da € 154,00 ad € 1.549, o l'arresto da quindici giorni ad un anno.
Questa era la normativa prima delle modifiche introdotte dall'art. 23 del D. Lgs. 151/15.
Infatti con il nuovo decreto cambia totalmente la veduta dell'utilizzo di tali apparati con una grande apertura sull'utilità dell'utilizzo degli stessi.
Facciamo un confronto immediato sulla evoluzione testuale della norma:

Testo Pre-Vigente                                                  Testo Vigente

1: “E' vietato l'uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori.”

1: “Gli impianti audiovisivi e gli altri strumenti dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell’attività dei lavoratori possono essere impiegati esclusivamente per esigenze organizzative e produttive, per la sicurezza del lavoro e per la tutela del patrimonio aziendale e possono essere installati previo accordo collettivo stipulato dalla rappresentanza sindacale unitaria o dalle rappresentanze sindacali aziendali. In alternativa, nel caso di imprese con unità produttive ubicate in diverse province della stessa regione ovvero in più regioni, tale accordo può essere stipulato dalle associazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale. In mancanza di accordo gli impianti e gli strumenti di cui al periodo precedente possono essere installati previa autorizzazione della Direzione territoriale del lavoro o, in alternativa, nel caso di imprese con unità produttive dislocate negli ambiti di competenza di più Direzioni territoriali del lavoro, del Ministero del lavoro e delle politiche sociali.”

2: “Gli impianti e le apparecchiature di controllo che siano richiesti da esigenze organizzative e produttive ovvero dalla sicurezza del lavoro, ma dai quali derivi anche la possibilità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori, possono essere installati soltanto previo accordo con le Rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste, con la Commissione interna. In difetto di accordo, su istanza del datore di lavoro, provvede l'Ispettorato del lavoro, dettando, ove occorra, le modalità per l'uso di tali impianti.”  

2: “La disposizione di cui al comma 1 non si applica agli strumenti utilizzati dal lavoratore per rendere la prestazione lavorativa e agli strumenti di registrazione degli accessi e delle presenze.

3: “Per gli impianti e le apparecchiature esistenti, che rispondano alle caratteristiche di cui al secondo comma del presente articolo, in mancanza di accordo con le Rappresentanze sindacali aziendali o con la Commissione interna, l'Ispettorato del lavoro provvede entro un anno dall'entrata in vigore della presente legge, dettando all'occorrenza le prescrizioni per l'adeguamento e le modalità di uso degli impianti suddetti.”

3: “Le informazioni raccolte ai sensi dei commi 1 e 2 sono utilizzabili a tutti i fini connessi al rapporto di lavoro a condizione che sia data al lavoratore adeguata informazione delle modalità d'uso degli strumenti e di effettuazione dei controlli e nel rispetto di quanto disposto dal decreto legislativo 30 giugno 2003, n. 196.».

4: “Contro i provvedimenti dell'Ispettorato del lavoro, di cui ai precedenti secondo e terzo comma, il datore di lavoro, le Rappresentanze sindacali aziendali o, in mancanza di queste, la Commissione interna, oppure i sindacati dei lavoratori di cui al successivo art. 19 possono ricorrere, entro 30 giorni dalla comunicazione del provvedimento, al Ministro per il lavoro e la previdenza sociale.”

 

Dall'analisi del testo normativo si denota immediatamente una grandissima apertura ed un'inversione del senso di marcia dello stesso; infatti viene meno "IL DIVIETO" di uso di impianti audiovisivi e di altre apparecchiature per finalità di controllo a distanza dell'attività dei lavoratori. Quella che prima era prevista quale unica deroga possibile, ora diventa base di partenza del novellato art. 4 dello Statuto dei Lavoratori. Grande novità ed apertura di visione normativa è anche l'introduzione della "tutela del patrimonio aziendale", tutela di natura civilistica e garantita, cosa che prima non era assolutamente contemplata nelle motivazioni addotte per l'ottenimento dell'installazione. A questo punto una domanda nasce spontanea: questa apertura potrebbe determinare l'utilizzo degli apparecchi audiovisivi ai fini disciplinari? Personalmente reputo fattuale una concezione simile in quanto taluni comportamenti disciplinarmente rilevanti possono essere comprovati dall'utilizzo delle telecamere, che non hanno solamente ormai lo scopo di tutelare la sicurezza del lavoro del lavoratore. Inoltre viene disciplinata in maniera più ampia la possibilità di richiesta di autorizzazione ove nella concezione precedente si limitava alla territorialità dell'autorizzazione di competenza della DTL. Invece, con il nuovo dettato normativo, è possibile addirittura ricorrere direttamente al Ministero del Lavoro e delle politiche sociali, per i datori di lavoro che hanno più sedi in diverse Direzioni Territoriali, il tutto per lo snellimento delle procedure burocratiche e duplicazione delle stesse.
Per quanto concerne il regime sanzionatorio il tutto viene rinviato all'art. 171 del D.Lgs. n. 196/2003, cosi come modificato dal comma 2 del D.Lgs. n. 151/2015: "La violazione delle disposizioni di cui all'articolo 113 e all'articolo 4, primo e secondo comma della legge 20 maggio 1970 n. 300, è punita con le sanzioni di cui all'articolo 38 della legge n. 300 del 1970".

 

FOCUS SULLA GIURISPRUDENZA

Di Fabiola Fregola

Tra i precedenti della giurisprudenza di legittimità che occorrerebbe avere, a torto o a ragione, sempre nel cassetto non può che annoverarsi la sentenza n. 22611/2012 della III Sezione Penale della Corte di Cassazione la quale, benché ormai sia datata, è inerente a uno dei temi più cari alle aule di Tribunale: privacy e controllo del datore di datore.
In particolare, con la sentenza n. 22611/2012 la Cassazione ha annullato, senza rinvio, la pronunzia di merito concernente la fattispecie dove il legale rappresentante di un'azienda era stato condannato, in grado di merito, per aver installato quattro telecamere volte a realizzare la videosorveglianza aziendale, due delle quali, in particolare, inquadravano direttamente alcune postazioni di lavoro fisse occupate dai lavoratori. Elemento che si rivelerà determinante sarà costituito dalla circostanza che l'installazione si era perfezionata soltanto dopo aver acquisito il consenso della totalità dei prestatori di lavoro, espresso per iscritto mediante sottoscrizione di ognuno.
Ai fini di una maggiore e migliore comprensione delle argomentazioni sviluppate dalla Corte occorre ricordare che preliminarmente che l'art. 4 della Legge n. 300 del 1970, nel secondo comma, precisa che impianti di controllo in ambito lavorativo possono essere installati unicamente "previo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali, oppure, in mancanza di queste con la commissione interna".
Nella fattispecie, tuttavia, l'assenso della totalità dei lavoratori era stato acquisito attraverso la sottoscrizione da parte loro di un documento ad hoc.
I Giudici della Suprema Corte, ponendo l'attenzione sulla finalità perseguita dalla norma, evidenziano, preliminarmente, che l'autorizzazione in causa non era espressione della RSU ma, al contrario, il consenso proveniva "dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza".
La Cassazione, citando alcuni precedenti, argomenta che "la disposizione di cui all'art. 4 intende tutelare i lavoratori contro forme subdole di controllo della loro attività da parte del datore di lavoro e che tale rischio viene escluso in presenza di un consenso di organismi di categoria rappresentativi (RSU o commissione interna), a fortiori, tale consenso deve essere considerato validamente prestato quando promani proprio da tutti i dipendenti".
Ricostruendo, quindi, la ratio della disposizione, che altro non è che quella di tutelare la libertà dei lavoratori nell'autorizzare meccanismi e forme di controllo anche indirette della propria attività lavorativa la Corte conclude censurando la sentenza impugnata "per non avere interpretato correttamente la norma sotto il profilo oggettivo ed analoga censura può essere mossa anche sotto il profilo psichico" in quanto i lavoratori erano consapevoli e, quindi, a conoscenza della presenza dell'impianto e tale circostanza è stata provata non soltanto dal documento da loro sottoscritto, bensì anche dal fatto che, come riferito da un teste, nei locali aziendali erano stati affissi dei cartelli che segnalavano la presenza del sistema di video sorveglianza.
Pertanto elemento non trascurabile e centrale della questione di cui ci si occupa, è, senza ombra di dubbio il consenso prestato e le modalità del suo ottenimento. Osservano i giudici di legittimità che "se è vero che non si trattava né di consenso e accordo con le RSU, né di quello con le commissioni interne, non può essere negata validità ad un consenso chiaro ed espresso proveniente dalla totalità dei lavoratori e non soltanto da una loro rappresentanza". Dunque secondo la Cassazione la mancanza di autorizzazione ottenuta attraverso il filtro delle organizzazioni aziendali (RSU e in difetto della commissione interna), non inficia la regolarità e la legittimità di un "chiaro ed espresso consenso proveniente da parte di tutti i lavoratori".
Sulla base di tali motivazioni la Corte ha ravvisato che non si fosse configurata alcuna violazione della privacy di dipendenti, proprio in virtù del loro espresso consenso scritto e manifesto. L'assenza dell'accordo con le rappresentanze aziendali così come dispone lo Statuto dei Lavoratori, è, infatti, controbilanciato dalla preventiva acquisizione del consenso di tutti i lavoratori (e non una parte di essi) ed è proprio quest'ultimo a prevalere secondo l'orientamento dato dai giudici. Alla luce di quanto esposto la Corte di Cassazione ha annullato la sentenza di condanna, concludendo come "del resto non risultando esservi disposizioni di alcun tipo che disciplinano l'acquisizione del consenso, un diverso opinare, in un caso come quello in esame, avrebbe il taglio di un formalismo estremo tale da contrastare con la logica".

postit 160

Post-it